Ormai agli sgoccioli della cosiddetta Fase 1, vorrei condividere una riflessione sulla tempesta emotiva che ha travolto molte persone negli ultimi due mesi. Solo adesso, infatti, abbiamo forse maturato quella consapevolezza che ci permette di riconoscere quanto leggeremo nelle prossime righe.
Questa riflessione è più che altro la condivisione di un’intervista dell’Harvard Business Review ad uno dei massimi esperti al mondo in tema di dolore e lutto: David Kessler.
Il punto di partenza è che dare un nome a ciò che si prova è il primo passo per iniziare ad elaborarlo e poi superarlo.
Davide Kessler ci dice che il mix di emozioni e sentimenti che molti di noi hanno provato in questo particolare momento sono del tutto compatibili con il quadro emotivo di un lutto. Perdita della normalità, perdita dell’usuale connessione con gli altri, perdita della sicurezza economica: sono tutti elementi che ci sono stati portati via da un giorno all’altro, che ci hanno colpito improvvisamente e che abbiamo vissuto – in modo del tutto inedito – come un lutto collettivo.
Il sentimento che si prova di fronte ad un futuro incerto, associato al concetto di morte possibile che è stato frequentemente elicitato negli ultimi mesi, assume inoltre le caratteristiche di quello che viene definito “lutto anticipatorio” (o dolore della perdita prima della perdita), che le persone sperimentano nelle situazioni in cui si riceve una diagnosi infausta riferita a sé, o quando apprendono che in un prossimo futuro perderanno una persona cara. Si è consapevoli che qualcosa di butto capiterà, ma non si sa esattamente quando. Questa particolare tipologia di sofferenza, riferita ad un virus, può generare molta confusione nelle persone: la nostra mente sa infatti che qualcosa di brutto può accadere, ma non sa né se né quando succederà. In più il virus è un nemico invisibile. Queste condizioni compromettono notevolmente il nostro senso di sicurezza ed è proprio la sicurezza – per l’appunto – un’altra delle più significative perdite che “piangiamo” durante questo periodo. E lo facciamo sia a livello individuale che, come detto in precedenza, collettivo.
Cosa si può fare per gestire questo sentimento?
Innanzitutto può essere d’aiuto conoscere le fasi del lutto, fasi che – ricordiamolo – non si susseguono sempre in modo lineare e nell’ordine che vedrete indicato.
Innanzitutto vi è la fase della Negazione, espressa da pensieri quali “Nel nostro paese non ci sono rischi“, Si tratta di una semplice influenza”, “Il virus colpisce solamente le persone anziane e malate”.
Vi è poi la Rabbia, quella che molte persone hanno provato soprattutto nelle fasi iniziali come reazione al lockdown e alla sospensione del normale svolgimento delle proprie attività. Quando non siamo pronti ad accettare e gestire la realtà cis com’è, ricorriamo alla rabbia proiettata all’esterno per provare a “trovare un colpevole” e avere la percezione di riacquisire un senso di controllo.
Quando la negazione non può più essere sostenibile e la rabbia inizia a scemare, ecco che subentra la Negoziazione, manifestata con pensieri del tipo “Ok, sono disposto a rimanere a casa per qualche tempo purché in un paio di settimane tutto sistemi e torni alla normalità”.
Vi è poi la Tristezza/Depressione, che genera una visione negativa espressa da pensieri di rassegnazione, disperazione ed assenza di speranza per il futuro quali “Non so se e quando tutto questo finirà e come ne usciremo”, “Domani potrei essere io a finire in ospedale”.
Ed infine vi è l’Accettazione, in cui si cerca di capire cosa si può fare tenendo conto della situazione esistente. Ed è proprio in questa fase che risiede la possibilità di riacquisire, anche minimamente, il senso di potere del quale ci siamo sentiti deprivati: “non posso controllare la pandemia, ma posso proteggermi lavandomi le mani, indossando i guanti, facendomi portare la spesa a casa, trovando le modalità migliori per lavorare a distanza”.
Come evitare di farsi sopraffare dalle emozioni e dai pensieri negativi?
Il lutto anticipatorio menzionato in precedenza si accompagna anche ad uno stato che può assumere i tratti tipici all’ansia nella sua forma più pura: la nostra mente inizia a divagare e si proietta verso il futuro, immaginando gli scenari più disastrosi.
La cosa più semplice che possiamo fare per calmarci e distogliere per un po’ la nostra attenzione dai pensieri catastrofici è tornare al presente, modalità molto familiare per chiunque mediti o pratichi la mindfulness.
Possiamo ad esempio nominare alcuni oggetti presenti in una stanza, focalizzare su di loro la nostra attenzione e descriverli nei particolari a voce alta.
Possiamo respirare: esistono diverse tipologie di respiro consapevole che si possono apprendere per favorire il rilassamento, ma nella versione più basilare possiamo semplicemente concentrare l’attenzione sul nostro respiro, sentendo l’aria che entra dal naso, l’espansione del torace o dell’addome ed infine l’aria che esce dal naso o dalla bocca, con il conseguente abbassamento di torace o addome.
Ancora, possiamo soffermarci nella consapevolezza che nel momento presente niente di ciò che stiamo immaginando è avvenuto: in questo momento stiamo bene, non siamo ammalati, abbiamo cibo per mangiare, un letto dove dormire (per i più fortunati di noi).
Infine possiamo usare i sensi e concentrarci sulle sensazioni che generano: il tavolo che tocco è duro e freddo, il plaid con cui mi copro è soffice, l’aria che entra dal mio naso ad ogni inspirazione è fresca, il gusto del cibo che sto mangiando è gradevole. Tutto ciò servirà a smorzare un po’ lo stato di agitazione e sofferenza e a riportarci nel qui ed ora.
Un’altra cosa importante è quella di imparare a lasciare andare, cioè non dedicare pensieri e consumare energie per le cose che di fatto non possiamo controllare: come si comporterà il mio vicino o se il caldo farà ridurre il livello di contagio non posso controllarlo, ma posso controllare i miei comportamenti: ad esempio mantenermi distanziato dalle persone, lavare le mani, nutrirmi in modo da contribuire al rafforzamento delle mie difese immunitarie.
Last but not least (infine, ma non meno importante) avere compassione verso gli altri. Quando ci sembra che il comportamento di qualcuno possa essere sconsiderato o inaccettabile (la persona che continua a uscire senza mascherina o la folla che si accalca sui treni per lasciare Milano), proviamo a pensare che a volte le persone reagiscono alla paura e all’ansia nei modi più bizzarri e irrazionali. Le persone, così come le vediamo in questo periodo, non sono le stesse che conoscevamo quando vivevamo in condizioni di normalità.
Un particolare aspetto angosciante di questa pandemia è l’impossibilità di prevederne la fine.
Razionalmente sappiamo che la situazione è temporanea, tuttavia la nostra parte emotiva non sempre va di pari passo con quella razionale. In ogni caso siamo ormai consapevoli che le cose non saranno uguali a prima almeno per un bel po’ di tempo. Ciò detto, è utile ripetersi che si tratta comunque di uno stato temporaneo, non permanente. Se ci proteggiamo adeguatamente possiamo affrontare questa pandemia, quindi questo è il momento per essere iper-protettivi, non iper-reattivi.
Dare un senso a tutto questo
David Kessler aggiunge un’ultima importante fase alle precedenti e più note fasi del lutto. Dopo l’accettazione vi è la fase del Dare senso. Attribuire un significato anche alle giornate più buie, cercare la luce anche nei periodi più neri è ciò che ci consente di ancorarci al positivo e di camminare nella direzione della cosiddetta “crescita post traumatica”. Nel contesto attuale questo può declinarsi ad esempio nel pensiero che, seppur distanti, possiamo comunque rimanere in contatto con le persone care attraverso la tecnologia; o nel fatto di apprezzare cose che davamo per scontate, come una semplice passeggiata; o nella possibilità di avere del tempo – che di solito non abbiamo e rimpiangiamo – da dedicare ad attività o persone care.
Che messaggio dare a chi, nonostante quanto detto fino ad ora, continua a sentirsi sopraffatto dal dolore e dall’angoscia?
Innanzitutto di non fermarsi al primo tentativo rispetto ai suggerimenti dati sopra. Bisogna impegnarsi ed esercitarsi in qualunque cosa, non esistono magie.
Inoltre, per tornare al punto di partenza, è importante sapere che c’è qualcosa di molto potente già nel semplice riconoscimento del dolore che proviamo, perché ci consente di dare un nome a ciò che sentiamo dentro. Nominare le cose vuol dire darsi la possibilità di sentirle, di esprimerle per ridurne la carica emotiva, evitando che ci consumino dall’interno.
Uno dei problemi principali delle generazioni più giovani è quello di non sentire o non distinguere le emozioni, oppure di cercare il modo per scacciarle. Le emozioni ci servono, portano un messaggio al quale si collega un certo tipo di azione che si è sviluppata in senso evolutivo per garantirci la sopravvivenza. Combatterle o soffocarle, non ci farà star meglio… anzi! È esattamente l’opposto. Dare loro spazio e accoglierle farà in modo di non esserne vittime.
E se questo è il momento per sentire il dolore, qualcuno avrebbe detto “Let it be” (lascia che sia).